Questo articolo è stato pubblicato, come sempre, sul mio Sito, nella mia Newsletter Substack e su quella in Linkedin.
È una mia impressione o la polarizzazione è diventata regola universale e “base” da cui partire per una convivenza sempre più forzata sui social media?
In particolare su Facebook pare sia una regola non scritta, una sorta di abitudine.
Interessante però notare come ci siano varie “forze” che soffiano sul fuoco, alimentandolo, una tra tutte è la propaganda politica che su Facebook ha trovato un terreno molto molto fertile in cui prosperare indisturbata.
Diverse testate lo segnalano periodicamente (ultima è Open, il 22 Marzo con questo articolo) ma la questione sembra essere poco interessante per il grande pubblico, la politica e persino chi dovrebbe garantire il regolare esercizio della nostra Democrazia.
Allora vediamola da un altro punto di vista, quello dei costi indiretti.
Si c’è chi paga il conto di tutto questo, al di là dei mandanti.
Una delle “regole d’oro” della propaganda politica è quella di gettare continuo discredito sui media tradizionali, così da convincere il target a dare sempre maggior credito al sito tirato su in una notte e zeppo di fake news, i cui articoli vengono condivisi incessantemente in gruppi Facebook o Telegram.
Ho assistito a tutto questo durante la campagna elettorale che ha portato Donald Trump a diventare presidente degli Stati Uniti anni fa: diversi gruppi Facebook usati come cassa di risonanza per migliaia e migliaia di articoli al limite del surreale alternati ad attacchi di ogni genere ai media tradizionali, in particolare la CNN.
Ma al di là degli spazi “ormai owned” come i gruppi Facebook o Telegram, il discredito si gioca molto spesso sulle pagine ufficiali delle testate, in cui è facile notare che gli argomenti cari a chi fa propaganda, vengono presi di mira sistematicamente.
In quest’ultimo periodo gli articoli legati al Covid, ai vaccini e alla guerra in Ucraina, sono stati i “trending topic” su cui si sono concentrati migliaia di profili dalla dubbia provenienza, che il più delle volte non risultano essere follower o lettori delle testate che pubblicano tali contenuti sulle loro pagine social.
Se ne legge di ogni, tra cui una percentuale crescente di commenti che nulla hanno a che fare con l’argomento trattato, ma se la prendono direttamente con la testata e i giornalisti in generale. Insulti, minacce, volgarità di ogni genere, senza un filtro.
Quindi il circolo vizioso, partendo da centinaia se non migliaia di profili utili ad un certo tipo di propaganda, arriva ad una massa di persone che più o meno inconsapevolmente, plasmano il loro comportamento, registro linguistico e atteggiamento sul modello dei troll.
Altra cosa che rema decisamente contro eventuali tentativi di risoluzione è il funzionamento dell’algoritmo su Facebook, che ad un’osservazione più attenta rivela che:
- Se sono fan/follower di una testata, non mi verranno proposti in home tutti i contenuti ma verrà dato più spazio ai contenuti (più esigui) non corredati di link.
- Se proprio sono interessato ad un argomento, perchè ne parlo sul mio profilo, visito pagine legate a quell’argomento dove è presente un Pixel di Facebook ed altri comportamenti simili, allora ho buone probabilità di vedere in home un post contenente un articolo su quell’argomento.
- Se vedendo un articolo/link su un determinato argomento in home, interagisco con una reaction, questo comporterà un lieve incremento dei contenuti legati a quel determinato argomento nella mia home.
Provenienti sempre dalle pagine delle testate che seguo. - Se poi commento quel post, senza cliccare sul link all’articolo, allora è Jackpot: l’algoritmo sa che può propormi contenuti con link senza pericolo che io ci clicchi lasciando la piattaforma, e valuta come oro colato il mio commento.
Quindi ogni troll nelle vicinanze, oltre che recuperare link specifici in gruppi Telegram o altrove, sarà amabilmente servito dall’algoritmo che gli proporrà ogni articolo possibile in cui scaricare bile e frustrazione.
Poi, lentamente, questo atteggiamento nella terra di nessuno comincia a espandersi fuori dai confini dei trending topic della propaganda:
- Ritrovato gattino che si era perso: “maledette gattare, dovrebbero morire tutte, pensiamo agli umani e non agli animali!!1!”
- Domani ci sarà bel tempo: “eh ma le scie chimiche, il governo è complice11!!”
- Il comune tal dei tali ha piantato un albero: “maledetti, non si piantano gli alberi, devono aiutare gli italiani non gli alberi11!!!1”
E così via.
In tutto questo trambusto, ci sono giornali che lasciano Facebook, e la stragrande maggioranza sembra invece non curarsi di tutta questa situazione.
Ma come avevo detto poco fa, chi paga?
Pagano i giornali, gli editori: la mancanza di una social media policy comunemente adottata e l’evidente difficoltà di moderazione ha portato gli editori ad alzare bandiera bianca senza aver mai provato a metterci una pezza.
E ad oggi la mole di tale devastazione è decisamente proibitiva.
Il costo indiretto è quella voce che spesso viene proposta dai team sales a margine di una pianificazione advertising, la più che nota “pubblicazione del contenuto anche su Facebook, dove la nostra pagina raggiunge ogni giorno X Milioni di persone”.
Qualche mese fa mi è stato proposto all’interno di un piano che stavo preparando, il post su Facebook.
In quel frangente devo ammettere che mi è corso un brivido lungo la schiena, ma trattandosi di un evento locale su una testata altrettanto locale i cui lettori preferiscono azzuffarsi nei classici gruppi “Sei di tale città se…” ho pensato che potesse comunque starci.
La domanda a questo punto sorge spontanea, e se fossi un’azienda più strutturata? Se stessi promuovendo le mie policy sull’inclusività?
Se fossi un brand con un testimonial non proprio caucasico, alto, biondo e con gli occhi azzurri?
Potrei raggiungere quell’X Milioni di persone ma per raccogliere cosa?
Il fatto di raggiungere milioni o anche miliardi di persone, va a scapito della qualità? Delle reazioni?
Se vogliamo ragionare in questo modo allora ci comportiamo come i brand che a fronte di una campagna di influencer marketing su YouTube, poi nel report chiedono di includere il numero dei commenti ai singoli video, senza curarsi del fatto che il buon 98% di tali commenti è rappresentato in media da:
- Mi saluti nel prossimo video?
- Quando fai il tour della casa?
- Che bella/o che sei con i capelli così.
Insomma, nulla a che vedere con il brand o il prodotto che si voleva promuovere.
Oggi gli editori sui social network dovrebbero munirsi di una social media policy più ferrea, di santa pazienza, e fare pulizia di tutti quei profili che si comportano come pirati o peggio sulle loro pagine social, per riportare la calma e non ultimo, riportare lì quelle persone che amavano commentare e confrontarsi nei limiti della civiltà.
Così facendo, diventerà anche più profittevole e semplice inserire i branded content sui social all’interno delle pianificazioni media, andando così a valorizzare i buoni e cari earned media, perchè allo stato attuale delle cose di earned c’è poco.
Nota dell’autore: con questo articolo non voglio assolutamente colpevolizzare editori e giornali che hanno una presenza sui social media, anzi, vorrei essere solo d’aiuto perchè amo il giornalismo, l’editoria e tutto ciò che ruota intorno ad essa.
Da piccolo volevo fare il giornalista!